Tisseron dice: «L’opposizione tra virtuale e reale non ha senso perché nella mente dell’uomo il cervello costruisce costantemente delle rappresentazioni virtuali che permettono simulazioni mentali e la possibilità di anticipare le azioni».
Quando noi abbiamo paura del virtuale, per i nostri ragazzi, è perché temiamo che ciò che non è reale, materialmente vicino, toccabile, diventi per loro la realtà, cioè il fatto nel quale costruiscono se stessi e immaginano quindi la propria vita.
Non dobbiamo neanche avere paura del mondo digitale, il mondo digitale è una ricchezza infinita, una possibilità di conoscenza, perché l’uomo è limitato, la conoscenza dell’uomo è limitata, il desiderio di conoscenza invece è illimitato. La possibilità del digitale ti aiuta ad allargare l’orizzonte, non a diventare più stupido ma ad affrontare, cercare, trovare e paragonarti con tutto un pensiero che non è solo il tuo, che non è solo quello di casa tua. Quindi è paradossale che noi ci ritroviamo oggi a parlare di ragazzi che con tutta questa ricchezza a disposizione sono ritirati dal reale. Perché questa è la paura che vi ha portato qui in tanti, avere dei ragazzi a casa che non si alzano dal letto, vogliono solo stare davanti ai giochi, o si mettono stabilmente in contatto attraverso, non è neanche più Facebook, ormai è superatissimo, ci son ben altri nomi, ma io sono pochissimo esperta e quindi neanche li cito. Cambiano i ragazzi. Vi leggo una lettera che ho trovato su un mensile, una rivista mensile che si chiama Tracce. E dice questa ragazza, che si chiama Alessandra, così si firma: «È importante per me questo: seguire una persona che non ha pregiudizi su di me, su cui posso contare sempre, faccio fatica a fidarmi delle persone e a relazionarmi con esse. Ho capito però che, oltre a me, ci sono altri 5000 ragazzi che hanno i miei stessi problemi e per me è stupendo, perché capisci che non sei solo. Da tanto tempo dopo la separazione dei miei volevo riuscire a dire la vita è stupenda, e non ci riuscivo, e dicevo perché devo credere in Dio? Perché mi fa soffrire? Perché ha scelto me?». E poi racconta tutta la sua esperienza di incontro con qualcuno che l’ha guardata in faccia e le ha sorriso in un certo modo e dice: «Ho capito che questa cosa che mi aveva devastato», la separazione dei genitori e tutta la sofferenza, il rifiuto e la rabbia che ne erano derivati, «in realtà mi ha fatto crescere moltissimo». Questa ragazza è di oggi, è una adolescente di oggi, ha i problemi di tanti dei ragazzi che vengono in studio da me, di tanta sofferenza che li chiude. Mi ha scritto una lettera una ragazza che adesso ha 22 anni che io ho aiutato quando ne aveva 14 e che dalla Norvegia mi scrive: «Ti ringrazio, perché quando sono venuta da te, così piena di rabbia, di chiusura», non voleva più andare a scuola, il papà se ne era andato da casa e lei era furiosa contro questo padre e non voleva più nulla, «perché tu mi hai confortato e sostenuto dicendo che la rabbia non poteva essere l’ultima parola della mia vita, che il fatto che io soffrissi così tanto», mi diceva e dicevo io a lei, «era il segno che non era fatta solo di rabbia», che voleva che prima della rabbia ci fosse qualcosa che genera la rabbia, un bene per il quale temi, come la vostra paura non è l’ultima parola, c’è un bene che è la vita dei vostri figli che genera la paura. Dobbiamo smettere di puntare sulla paura per difenderci e difenderli e puntare invece sul bene presente che c’è. Mi scrive un altro ragazzino di 14 anni che ha un lavoro a scuola sull’amicizia, perché l’insegnante l’ha sollecitato come gli altri e scrive: «Essere amici, ormai lo sento dire molto spesso, anche con superficialità, quasi non pensando al suo vero significato. Certo anche io uso la parola amico in modo superficiale, tanto che per un anno e mezzo mi è sempre piaciuto essere l’amicone di tutti, ovvero stare antipatico a quasi nessuno, ridere e scherzare con tutti. Questa cosa mi piaceva molto, perché avevo sempre intorno persone felici. Ora non tutti erano conoscenti ma l’amicizia è un legame che unisce due persone che le porta ad essere unite». Parla come riesce. «Questo legame non è voluto, si viene a creare piano piano, come se anello dopo anello costruisce una catena indistruttibile. Però se uno risulta come coi conoscenti detti prima, questi anelli, fatti tutti di bugie, portano questa catena a rompersi oppure semplicemente arriva qualcosa come l’acqua che fa arrugginire il legame e lo porta a rompersi». Ma la conclusione è la cosa più interessante: «Penso che fino ad ora di catene indistruttibili io non ne abbia mai avute proprio per il fatto che non ho mai pensato a cosa voglia dire essere amici prima di oggi, ma prima o poi spero di creare un legame così anche io». Questo è un altro dei nostri ragazzi, con una storia tra l’altro familiare difficilissima. Il cuore dei nostri ragazzi non è cambiato, i nostri ragazzi desiderano «una persona che non ha pregiudizi su di me, su cui posso contare sempre, ma faccio fatica a relazionarmi e affidarmi». Questo nell’adolescente è normale. Normale non vuole dire senza sofferenza e senza fatica, tutt’altro. L’adolescente, il ragazzo si trova avere a che fare già con un corpo che gli da fastidio, si trova ad avere a che fare con un modo di sentire e delle pulsioni interne che lo spaventano e pensa di essere da solo. Scoprire che altri cinquemila soffrono come me, è importante, ma come fai a saperlo? Come fai? Ecco allora che questi ragazzi, che si rivolgono alla rete. Perché si rivolgono alla rete? La rete che è un modo di comunicare che non è finto. Cito ancora Turkle: «Non ha senso parlare di virtuale per definire gli spazi di interazione in internet, come gli scambi su Facebook o attraverso i videogiochi online, che appaiono non meno reali degli scambi vis-à-vis. Le tecnologie informatiche organizzano semplicemente nuove forme di presentarsi all’altro». E che cosa ha di affascinante questa nuova forma che prende così tanto questi ragazzi? «Le tecnologie digitali permettono di attualizzare una rappresentazione nell’immediato, una apparenza di realtà concreta e tangibile in cui non è possibile distinguere le immagine di oggetti virtuali che non esistono e le immagini di oggetti reali». Perché piace questo ai ragazzi? Perché la realtà non soddisfa. Perché la tensione enorme all’assoluto, al tutto, va a scontrarsi con una realtà che non risponde, non corrisponde. Si sentono soli e hanno paura. Questa è una situazione direi quasi fisiologica in questa crescita che, come voi sapete, è esponenziale e anche irregolare. Il cervello, le emozioni e il corpo vanno ognuno per conto proprio e non ti ritrovi più a camminare bene nelle gambe troppo lunghe. Il virtuale consente di mettersi in relazione proiettando un sé come io lo desidero. Io posso dire di essere quello che voglio senza tener conto di tutto quello che il mio sé reale mi pone come difficoltà: vergogna, incapacità, disadattamento, fatica nelle relazioni, errori, paura di sbagliare. Quindi io non ho un rapporto, ma cosa manca, cosa si perde in questa assenza di fisicità? Si perde l’emozione del corpo. Tanto è vero che per dire attraverso un Tweet quella che è la emozione che l’accompagna, il sentimento, io debbo scegliere una faccina, devo mentalizzare l’emozione, pensarla e tradurla in una immagine. Quindi la mia emozione non partecipa più del rapporto, rimane tutta implosa in me e non gestita e non incanalata. E nel rapporto virtuale non è neanche corretta. Perché l’altro non mi risponde in base all’emozione che vive, ma in base all’emozione che pensa che io mi aspetti di aver provocato in lui. Questo tipo di relazione non è che cambia il cervello, cerchiamo di stare tranquilli, sono stati fatti un sacco di studi. Cambia il cervello in internet? No. Per ora parlano dell’amigdala, non si modifica. Questo essere stabilmente connessi non altera il cervello, non è questo il punto, non risponde al bisogno reale della persona che si è messa in contatto, è solo questo il tema. Tu cerchi una cosa e non la trovi. E tra l’altro avviene un fenomeno particolare per cui esisto, ma questo è proprio dell’essere umano, come ci dice l’amico Galimberti: «L’identità non si costruisce per il semplice fatto che ci siamo e che ogni volta che parliamo diciamo io. L’identità si costruisce a partire dal riconoscimento dell’altro». Più è fragile, più è fragile, superficiale istantaneo il riconoscimento, più aumenta il mio bisogno di presenza, di essere ancora riconosciuto e rispondere e mandare. Questo che viene chiamato il narcisismo, legato al fatto di essere sempre presenti, in realtà risponde a una profonda insoddisfazione nella risposta. L’altro, che mi dovrebbe dare sicurezza di me, certezza del fatto che io sono, attraverso l’esperienza reale, emotiva di rapporto che vivo e che mi costruisce, invece non c’è e questa risposta non mi soddisfa e mi lascia drammaticamente solo. Ho presente molto bene un ragazzo di 17 anni, in studio da me, che non riusciva a mettere giù il suo cellulare neanche durante la seduta. Con gli adolescenti è inutile che tu stia lì a fare storie, metti via, non sono né la mamma, né la professoressa del compito in classe, se lo tiene lì, prendo atto che non gli basto, secondo lui è che la relazione, la sua possibilità di essere anche lì, passa attraverso il fatto che qualcuno lo rende vivo per il fatto che lo chiama. Abbiamo cominciato da lì, guardandoci in faccia, non ad attaccare il telefono, ma a cercare il bisogno di essere riconosciuto. Allora, i ragazzi hanno bisogno del gruppo, lo sanno tutti che gli adolescenti, nel momento in cui si staccano dalla famiglia e cercano una propria soggettività, hanno bisogno del riconoscimento dell’altro e lo cercano nel gruppo. In questo senso il mondo del web ti permette di appartenere, è un gruppo sempre aperto, ti prende sempre quando vuoi, ti puoi disconnettere quando vuoi, almeno così pensano per un po’, e poi possono arrivare anche ad esserne drogati ma non mi interessa tanto affrontare la patologia, quanto le condizioni. Questa mancanza di fisicità, li rende impreparati sempre di più alla relazione, ma, d’altra parte, noi ridevamo a scuola con la direttrice della mia scuola, perché è arrivato tra noi un manager che non saliva più due rampe di scale, ma mandava la mail per le sue comunicazioni e ci siamo trovati a rispondere con le mail, perché? Perché si fa prima, si fa più in fretta, più presto a rispondere. Il tempo incalza, la nevrosi stabile di questo bisogno incalza e tu hai sempre meno tempo, sempre meno tempo e sempre meno parole, perché, attraverso questa comunicazione, la cosa di cui questi ragazzi sono più privati è la parola. Ho avuto il piacere di partecipare a un lavoro che una prima superiore ha fatto. Una prima superiore di un tecnico. Ora, in questa prima superiore i ragazzi sono stati sfidati a leggere un testo, un testo difficile, contemporaneo e hanno impiegato diversi mesi e vedere come erano imbarazzati, incapaci a trattare la parola all’inizio e vedere come sono stati capaci di goderla questa parola alla fine del lavoro, mi ha profondamente commosso ed è stato questo che mi ha fatto dire: sono privi di parola. E lo sono perché sono privi di relazione, perché è attraverso la parola, lo sguardo, il gesto, che l’uomo realmente si relaziona e questi ragazzi senza parola, che costruzione di pensiero possono avere e fare? Se nel tempo non c’è nessuno che li provoca alla parola, cioè dà spazio all’ascolto, non solo automatico e meccanico per sciogliere le questioni, ma la parola, come dice il mio ragazzino, per accorgermi, per fare entrare e capire i bisogno che ho. Allora se non c’è qualcuno che provoca questo, l’esito più pesante che io ritengo ci sia nei nostri ragazzi è quello di non avere più domande. Non avendo più parola, non riescono a trovare le parole per esprimere la domanda che nasce dentro e la domanda si trasforma in pulsione, emozione transitoria, azione. A volte azione attraverso un messaggio: oggi nessuno non scrive più neanche i messaggi, gli sms, ma tutto attraverso WhatsApp, nessuno neanche più telefona, non c’è neanche più la parola attraverso lo strumento mediato del telefono: «Ma chiama, devi trovare il tuo amico, ti metti d’accordo, prendi la bicicletta, no? No. Io non chiamo. Chiama tu. Va beh. Allora». Invece, il bisogno interno di verità, di giustizia, di assoluto, c’è tutto, ed è avvertito come un disagio prepotente interno, che diventa azione fino a quello che psichiatricamente chiamiamo acting out. Gli adolescenti la loro emozione devono in qualche modo incanalarla, tradurla, perché non li distrugga, e a volte incendiano, a volte tagliano, non la incanalano positivamente, a volte la incanalano in modo distruttivo. Questa esigenza che già nell’adolescente è fisiologica, diventa drammaticamente una azione distruttiva o autolesiva, che è quello che tantissime volte riscontriamo nei nostri ragazzi. Allora non entro neanche, perché penso di aver finito il tempo, nella questione della patologia, della dipendenza, del fatto che il virtuale prende il sopravvento e mi fa ritirare, ma non è il virtuale, sono io che sono già ritirato, perché il reale mi paralizza, nel reale non ho strumenti, allora mi fermo e devo pur trovare un oggetto nel quale identificarmi. La rete fa da sostituto temporaneo, ma nel tempo non solo giochi, stai in casa, ma, se a questo non si accompagna altro, dopo stai sdraiato nel letto, perdi la consapevolezza della importanza e della bellezza del tuo stesso esserci. Se nessuno ti aiuta a guardare quel disagio, non puoi capire che è una occasione per domandarti dove devo cercare, dove posso trovare risposta. Io, l’Adele e quanti facciamo questo lavoro di psicoterapeuti, finiamo per essere il punto a cui questi ragazzi chiedono di essere ciò che non puoi essere. Il punto che però ti rimette in moto, non attraverso la correzione, la condanna, ma attraverso l’ascolto e il riconoscimento di un bene che c’è non in base all’assenza di errori, alle giuste regole, al fatto che sei ben integrato. Noi troviamo dei ragazzi sofferentissimi anche ben integrati, paradossalmente, perché la domanda esistenziale di fondo non può trovare risposta se non attraverso una relazione affettiva, dove l’altro ti prende dentro con amore, cioè pensando che sei un bene a prescindere e che in te vede un bene. Come voi vedete, e vado a chiudere, il problema che rimane aperto è eminentemente educativo, di adulti che non abbiano paura di essere ciò che sono, di accorgersi di chi sono e abbiano il coraggio di comunicarlo. Allora, uno che io ritengo un grande amico, che è don Giussani, che è un prete, di fronte al passaggio della adolescenza, parlava del fatto che a questa età i ragazzi hanno un sacco sulle spalle e, arrivati all’adolescenza, lo mettono davanti a i propri occhi e guardano cosa c’è dentro e pescano e decidono questo è per me, questo non è per me. Perché questo accada, occorre che ci sia qualcosa nel sacchetto, fosse anche un serpente, perché anche nell’esperienza, davanti alla quale il ragazzo dice non è per me, dice qualcosa. Se questo è vuoto, perché io non ho il coraggio o non so chi sono e non ho messo dentro niente,sorgono i problemi. Nessuno di noi che ha o ha avuto figli o che ha degli alunni pensa di non insegnare ai propri figli. Tutti cerchiamo di insegnare il meglio, ma a cosa guarda il ragazzo quando tira fuori? Non alle idee, perché con le idee dialogare è facile, perché uno se le può sbattere dietro alle spalle e fregarsene, ma le persone, con la loro esperienza, con la vita che ci hanno comunicato perché la vivono. Questo è il punto. Se io non ho il coraggio di dire me stesso, il ragazzo non troverà niente dentro questo sacchetto e andrà a cercarlo da qualche altra parte. Ma io non sono per niente pessimista, perché questo che ho letto di questi due ragazzi, mi dice invece che il cuore c’è e il cuore è incontrabile e il tempo non è affatto corto, perché c’è tutta la vita per continuare a riallacciare relazioni con quelli che amiamo, se solo non fuggiamo, se solo abbiamo, come dire, la pazienza di accettare che, anche sbagliamo, se non siamo capaci, comunque siamo come siamo e continuiamo ad esserci. Dico e leggo come ultimissima cosa un’altra citazione, perché mi è piaciuta in modo particolare. È la parola di un giornalista che parlava presentando il film Isis tomorrow, da Milano, sull’Espresso del 19 agosto. Un atto di fiducia nel giornalismo, quindi non c’entra niente con gli adolescenti, non c’entra niente con internet. Lui parlava del fatto della verità. La scoperta che la verità si compone senza giudicare, ma ricostruendo con pazienza la tela di ogni volto e di ogni storia, creatura per creatura. La sofferenza, il dolore, la speranza di ogni singola persona che diventano sentimento universale, l’umanità di tutti. Quindi io sono assolutamente piena di fiducia che coi nostri ragazzi si può camminare, perché il loro cuore è il cuore umano e sono anche fiduciosa in internet perché, e qui chiudo con una battuta, l’ho fatto vedere alla nostra amica Adele: nel 370 a.C., nel Fedro, Platone fa disquisire Fedro e Socrate sul rischio della scrittura. La scrittura è quindi da rifiutare perché è pericolosa per la memoria. L’uso dell’alfabeto promuove inoltre una cultura ipocrita e superficiale perché non nasce da un lavoro personale di ricerca o attraverso l’insegnante, ma solo dalla raccolta sommaria di notizie e opinioni scritte da altri. Il parallelismo con l’attuale dibattito su internet è impressionante.
- Appunti di un incontro svolto al Meeting di Rimini del 2018, con Luisa Leoni Bassani, Neuropsichiatra dell’Età dell’Adolescenza