A fronte di tanti interventi, anche significativi, che mettono a tema la motivazione allo studio e che rispondono più o meno al perché valga la pena studiare, io mi mi limito a registrare la mia esperienza: studiare è bello!
Scriveva Cicerone: “Orbene, in noi è radicato un desiderio di conoscere e di sperimentare tanto grande, che nessuno potrebbe nutrire dubbi che la natura umana è, disinteressatamente, conquistata a tali conoscenze. Non vediamo forse come i fanciulli, neanche coi rimbrotti, rinunciano a scoprire
e ad investigare le cose? Come, allontanati, vi ritornino? Come provino piacere ad imparare qualcosa?”. (Cicerone, De finibus)
Sulla stessa linea è Dante, che inizia il Trattato I del suo Convivio affermando: “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima
perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti”.
Questi grandi uomini – e con loro molti altri – sembrano descrivere una realtà che non c’è più. E’ sotto gli occhi di tutti. Lo dicono, allarmate, le agenzie educative di tutto il mondo.
Con grande acutezza, Maria Zambrano, negli anni ‘60, in Verso un sapere dell’anima, identificava così il nucleo dell’attuale crisi educativa:
«Ciò che è in crisi è questo nesso misterioso che unisce il
nostro essere con il reale, qualcosa di così profondo e fondamentale che è il nostro intimo sostento»
In un incontro con giovani universitari don Giussani affermava:
“Vorrei iniziare questa nostra conversazione osservando una differenza tra l’attuale generazione di giovani e quella che ho incontrato trent’anni fa: la differenza risiede in una debolezza di coscienza nei giovani di oggi; una debolezza cioè non etica, ma relativa al dinamismo stesso della coscienza.
È come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Chernobyl, di enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale se non la moda – che è un concetto e uno strumento del potere. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente…”.
Non è mia intenzione indagare su quali siano i fattori – più d’uno – che ha portato all’attuale situazione, credo che occorra avere il coraggio di guardarla in faccia, senza minimizzarla, né enfatizzarla. Se quello che stiamo vivendo è un cambiamento d’epoca, come qualcuno di molto importante l’ha definita, ritengo estremamente riduttivo illudersi di poter risolvere i problemi della scuola facendo appello a nuove strategie didattiche.
Ben vengano nuove modalità di affronto delle discipline, si faccia spazio alle nuove tecnologie, ma non credo sia questo, innanzitutto, il problema.
Non saranno certo le lavagne luminose e le fibre ottiche a sconfiggere quel nichilismo che Galimberti definisce un “ospite inquietante” che attanaglia la vita dei giovani.
Spesso i ragazzi si chiedono e ci chiedono perché valga la pena studiare.
Rispondere loro: “Perché se studi, quando sarai grande…”, non porta a nessun esito. Far leva su un moralistico richiamo al senso del dovere non sortisce nessun effetto. Assai triste è trattare l’impegno nello studio come se fosse una merce di scambio: “Se prendi un bel voto di faccio un regalo”.
Ha scritto Giacomo Leopardi nello Zibaldone: “L’uomo che non si interessa a se stesso, non è capace di interessarsi a nulla, perché nulla può interessare l’uomo se non in relazione a se stesso. “
Quel che occorre è risvegliare l’io di ciascuno, così che possano emergere le sue originali propensioni a conoscersi e a conoscere.
Questa è la grande sfida: che cosa muove l’io nell’intimo?
Ricordo A., un mio ex alunno. Sembrava non interessarsi a nulla se non all’ascolto di un certo tipo di musica, quella dai suoni metallici.
Un giorno l’ho trovato in disparte nel giardino della scuola, con le cuffiette. Sia pur a qualche metro di distanza percepivo nitidamente quel che stava ascoltando. Lo interruppi chiedendogli se poteva registrarmi una cassetta con quelle che lui riteneva essere le migliori canzoni. Ricordo con sorpresa
che da quel giorno iniziò a studiare matematica e fisica.
E’ bastato guardare alla sua passione, prenderla sul serio, perché lui si “muovesse” nei confronti della realtà, recuperando così quell’impeto che è originale nell’uomo, ma che spesso è come sepolto sotto una coltre di detriti.
Sempre don Giussani, in un dialogo con dei giovani, diceva che il nemico dello sviluppo di una personalità – lui usava il termine cristiano “vocazione” – non sono le passioni devianti, le distrazioni a buon mercato, ma lo scetticismo, che si manifesta come un venir meno della voglia di
vivere, che non assume una forma tragica, ma è piuttosto il venir meno dell’intelligenza e della volontà di fronte alla vita; uno non sente più l’attrattiva verso quello che percepisce essere un bene. Le ragazze e i ragazzi di oggi è come se avessero nel sangue lo scetticismo che hanno respirato da noi adulti. Ci sono adulti che addirittura teorizzano il dubbio sistematico come strumento utile per navigare in questo mondo e non rimanere delusi dalla vita.
Gli studenti del mio Liceo hanno in questi giorni allestito una mostra dal titolo: “Non siamo solo studenti”. Attraverso efficaci scenografie hanno dato voce all’esigenza di essere guardati nella loro interezza, con i loro sogni e desideri.
Una bella provocazione per noi docenti: facciamo parte del problema o della soluzione? Spesso lo studio che si propone a scuola sembra non c’entrare nulla con la vita.
Lo dice bene Shakespeare in “Pene d’amor perdute”:
“Questi padroni in terra delle luci del cielo
che danno un nome ad ogni stella fissa,
dalle notti stellate non hanno più compenso
di chi va sotto gli astri e non li conosce mica.
Saper troppo ci rende famosi ma ignoranti,
e dare i nomi è facile, i padrini sono tanti”
Qual è quel sapere che rende ignoranti? Quella erudizione che non giudica la vita e il destino.
Romano Guardini era convinto che “Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel proprio ambito”.
Uno impara ad amarsi quando sperimenta di essere oggetto di un amore. E come la scintilla fa partire un motore a benzina, così questo amore riaccende l’io e il suo desiderio di conoscere, di imparare, di scoprire, di crescere.
Ecco che ti ritrovi così a sentirti bambino nei confronti di una realtà che chiede di essere esplorata, e ti avvicini ad un racconto o ad una poesia come se fossero un nutrimento dell’anima, qualcosa che non ti lascia come prima.
E che cosa occorre perché un ragazzo possa “accendersi”? Non occorrono esperti in pedagogia o piromani. Occorrono adulti che vivano la loro domanda, che dialoghino con le discipline che insegnano. Che siano attenti agli studenti più che ai “processi cognitivi”.
Riconoscere, per rispondere alla provocazione degli studenti del mio Liceo, che anche noi “Non siamo solo professori”.
Siamo uomini, innanzitutto.
In cammino.