Domanda: Che esperienza fai della paternità, che non è solo biologica…
dB: Mi ero incuriosito quando un ragazzo, appena arrivato in comunità, a 15 anni, mi aveva consegnato una frase importante: “Sai don, io ho avuto due genitori, non ho mai avuto un padre e una madre”. Ecco questa frase mi era rimasta scolpita perché un conto è mettere al mondo figli, un conto è generarli alla vita e alla fede, diventare padre e madre. E’ un compito, è una promessa, è un viaggio diventare padre, non è qualcosa di automatico. Non perché metti al mondo figli allora automaticamente sei riconosciuto come padre e madre. E quello che ho compreso in questi anni è che per diventare padre e madre devi camminare, un po’ come Giuseppe, o come Abramo, come tutti i grandi padri della storia; devi lasciare, innanzitutto, devi lasciare le tue sicurezze, devi lasciare i tuoi comfort, devi lasciare quello che è il tuo schema educativo e devi inoltrarti a volte in territori sconosciuti. E soprattutto penso con gli adolescenti di oggi è importantissimo esporsi. Se penso ad Abramo, che ha preso ed è partito, se penso a Giuseppe, padre di Gesù, non ha detto una parola, è l’uomo dei fatti, è l’uomo che viaggia in continuazione per custodire suo figlio e la sua donna. Questo è un po’ quello che ho compreso anche per me. Io sono partito molto giovane in questa esperienza di accoglienza per ragazzi, insieme a tanti amici, ed è stato un viaggio lungo, dove scopri che la paternità è ancora da venire. Però dopo vent’anni, più di vent’anni, qualche cosa intuisci e vedi. Per esempio qualche anno fa alla festa del papà alcuni ragazzi mi hanno regalato un quadretto con le loro foto e hanno scritto questa frase bellissima: “Non ci hai mai detto come vivere, ti sei lasciato guardare e noi abbiamo capito”. E’ una frase stupenda perché capisci che diventa padre se qualcuno ti riconosce tale.
Anche nella parabola del figliol prodigo, non è che quel padre diventa automaticamente padre, la parabola inizia con “Un uomo aveva due figli”. Quando viene riconosciuto padre? Quando il figlio minore, dopo il suo viaggio in cui sperpera tutto dice: “Tornerò da mio padre”. E’ retroattivo, cioè capisci che quello è tuo padre perché non lo hai capito prima e poi incontri questo padre che ti viene incontro, che ti abbraccia, e lì comprendi. Ecco, l’esperienza della paternità è questo. Non trasmettere parole, convenzioni, ma trasmettere la tua vita, anche con i tuoi limiti, anche con i tuoi errori. Questo è molto importante, perché i trapper di questo periodo usano molto la parola “Real”, che significa reale. Questi ragazzi hanno bisogno di incontrare persone reali, anche con i loro limiti.
Per me oggi diventare padre non è semplicemente trasmettere valori. Un ragazzo mi diceva: “Per me sono scatole vuote, perché voi adulti i valori li proclamate ma non li vivete”. Come vedete un po’ di provocazioni i miei ragazzi me le tirano eh, e allora non è tanto questo, trasmettere parole e significati, perché davanti a certe situazioni i significati te li devi trovare tu, non è che sei arrivato su tutto. In tempo di pandemia quando i miei ragazzi mi dicevano “Ma Dio dov’è?”, non è che io avessi grandi risposte eh! Diventare padre significa essere continuamente educati dalla realtà e continuamente esporsi…
Domanda: Ma in questo crollo delle certezze, con i valori considerati scatole vuote, cosa facciamo? Come tutto questo può diventare occasione?
dB: D. che è un ragazzo che quando era al Beccaria, diciassettenne, mi diceva: “Non voglio diventare adulto, perché gli adulti si lamentano da mattina a sera”. Il suo modello adulto probabilmente era un po’ questo. E questo è interessante perché tendenzialmente comunichiamo un sapore della vita piuttosto drammatico. Molto spesso noi adulti non generiamo alla gioia, siamo in crisi anche noi, per cui la lamentela prende il sopravvento. Dipenda da come si guarda la vita. Penso che l’emergenza educativa venga a volte vista in un’accezione negativa “siamo in piena emergenza!”; alcuni la leggono in termini positivi: meno male che siamo in emergenza, meno male che oggi leggiamo la realtà e la realtà fa emergere quali sono i problemi.
Da un certo punto questa emergenza educativa ci fa facendo vedere tante cose che prima non osavamo guardare, non osavamo neanche comprendere. E questa cosa è molto bella perché alla fine noi abbiamo questo tempo, non ne abbiamo altro. Dobbiamo credere che il nostro tempo non sia solo Kronos, ma sia innanzitutto Kairos. Kronos è il tempo che scorre, svilente, ove non è implicata la tua libertà, è il tempo che sfugge; quanti ragazzi vivono al Beccaria all’insegna del Kronos, addirittura segnano quanti mesi mancano, quanti giorni mancano per uscire dalla cella, è un tempo che non corrisponde alla tua soggettività, è un tempo morto dove tu, rassegnato e passivo aspetti, sconti la tua pena. Kairos è il tempo soggettivo, un tempo di qualità, quello in cui in qualche modo tu decidi che quel tempo può cambiare, può cambiarti, può cambiare le cose. I nostri ragazzi ci stanno dicendo fondamentalmente, per quel che capisco io, che i nostri valori convenzionali, le nostre abitudini, le nostre tradizioni pur belle, fanno acqua, non reggono all’urto della vita, alle domande forti della vita. E quindi ci stanno invitando a metterci in discussione. Per esempio non possiamo lamentarci, come sempre noi adulti, delle canzoni trap perché parlano di cose violente, negative, perché sbandierano questo bisogno di ricchezza a tutti i costi…Chi glielo ha insegnato? La dittatura del profitto chi l’ha messa nel loro cuore? Chi ha messo nel loro cuore l’idea che per realizzare la vita devi portare risultati a tutti i costi, in una cultura prestazionale che è veramente esigente, assordante. I ragazzi non ce la fanno più… Anche il mondo della scuola è un po’ così eh! Riesci se prendi bei voti, se hai dei risultati. I ragazzi si stanno un po’ ribellando a questi schemi convenzionali, a quest’idea di riuscita, di realizzazione, di chi si realizza nei risultati, nelle prestazioni; anche il mondo dello sport è un po’ così. Forse i nostri ragazzi ci stanno aiutando a capire che dentro a questi schemi non ci stanno più. Ecco perché reagiscono. Un tempo esisteva la contestazione dell’adulto, oggi a me pare che esista l’irrilevanza dell’adulto, non ti guardano proprio. Io ho vissuto tempi del Beccaria in cui si contestava l’autorità, ma adesso proprio la ignorano. Di questo adulto ne fanno volentieri a meno. Allora mi sono interrogato: che cosa è autorità? Ho compreso che tanta rabbia che vedo nei ragazzi che incontro, nei confronti delle forze dell’ordine, nei confronti dello stato, che cosa è? Da dove viene? Viene da un’idea di autorità come esercizio dispotico di potere. Si è confusa la parola auctoritas con la parola potestas. Quando tu pensi di educare un ragazzo in modo che obbedisca alle tue regole, e lo fai in maniera dispotica, autoritaria, il ragazzo non ti ascolta più, e tu diventi irrilevante, inutile. Quando invece l’autorità è ascoltata dentro una testimonianza di vita che si gioca nella libertà, allora cambia, i ragazzi ti ascoltano il cuore. Io questo lo sto sperimentando, non è quando imponiamo le regole. Quante discussioni in comunità con gli educatori: bisogna intervenire, bisogna contenere, no, bisogna lasciare i cancelli aperti, bisogna metterli di fronte alla loro libertà, perché questo già implica il fatto che tu li stimi, che tu li ritieni intelligenti, capaci di decidere, questo è il rischio, il rischio della libertà, il rischio educativo. Io penso che quel tipo di autorità, nel senso latino, di ciò che veramente ti fa crescere, perché ti mette in gioco con la tua libertà, è l’unica forma di autorità che i ragazzi ancora ascoltano e quindi questo può essere anche un modo, un metodo, per aiutare questi ragazzi a vivere l’autorità, la paternità, non come qualcosa di imposto doverosamente, ma come qualcosa di accolto, ascoltato, perché viene da una persona libera e da una testimonianza vera.
Domanda: come sfidare la libertà dell’altro, che oggi sembra così svuotato? E che cosa è questa libertà?
dB: Spesso quando dei genitori vengono a parlarmi, dei genitori che hanno figli in difficoltà, soprattutto le mamme, mi dicono: “Ma come è possibile, non gli ho mai fatto mancare nulla!”. Ed io dico: è proprio questo il problema! E’ la mancanza che genera il desiderio, è la mancanza che risveglia la domanda. Se un ragazzo ha tutto se è già soddisfatto, perché si dovrebbe porre domande?
Questo lo dico anche sul nostro modo di educare alla fede. Se noi anticipiamo la domanda e abbiamo già spiegazioni su tutto è chiaro che un ragazzo ci viene dietro finché regge la cosa, ma poi non si fa la domanda.
Ricordo una volta un nostro ragazzo bello tosto che ad un certo punto nel silenzio generale di un gruppo di adolescenti giovani chiede loro: “Ma voi perché venite in oratorio?”. Silenzio. Poi una ragazza osa e dice: “Perché ci troviamo bene insieme”. Immediata la reazione del ragazzo: “Allora andate in piazza che è la stessa cosa”. Poi tornando a casa mi dice: “Va beh, Don, non è che pensavo che mi rispondesse subito per Gesù Cristo, ma che risposta è quella lì?”.
Forse li abbiamo riempiti troppo questi ragazzi, forse abbiamo spento in loro le domande, e le domande si riaccendono quando tu avverti la distanza, la mancanza.
I nostri ragazzi, che arrivano da percorsi difficili – la cella fa subito avvertire cosa sia la mancanza – sono paradossalmente più svegli, ma perché quella che loro chiamano fame, in qualche modo consente loro di riporre la domanda sulla vita, sul significato della vita. Poi a volte per cercare di proteggerli da questo mondo pericoloso, riempiamo, anticipiamo, evitiamo che i nostri ragazzi possano soffrire e quindi è chiaro che così facendo noi passiamo inconsciamente due cose. Una è questa: non sei capace, ti devo dire tutto io. Ti anticipo io perché non voglio farti soffrire, ma l’idea sotto sotto è che tu non sei capace di portare la sofferenza, tu non sei capace di domandare.
Questo è purtroppo un problema. Ed è il motivo per cui crescono ragazzi insicuri. E l’altra è che fondamentalmente: io non ti stimo; non ti stimo perché non ti reputo capace di porti domande e di trovare tu le soluzioni. Perchè un conto è assecondare una regola, un conto è arrivarci tu, un conto è capire tu dove è la verità. Noi crediamo che i nostri figli non siano in grado di decifrare la verità, ma la verità si impone da sola. Non abbiamo bisogno di costringerli dentro una verità imposta da noi. La devono scoprire loro. Devono riconquistarsi questa loro vita. Se la devono conquistare. Ecco perché penso sia questo uno dei temi più importanti. Perché da noi in comunità certo è più facile… Adesso per esempio al Beccaria sono evasi sette ragazzi, grande notizia del giorno di Natale, sette babbi Natale, sono usciti, e naturalmente subito ricorso al regime repressivo, riacciuffati, tutti rispediti nelle carceri degli adulti “così capiranno cosa vuol dire”. L’idea che uno si convinca per paura, sotto minaccia. Noi a volte siamo un po’ cosi, molto reattivi.
Invece credo che un ragazzo ci arrivi da solo, anche quando sbaglia. Magari proprio lo sbaglio apre una domanda, proprio il vuoto dell’esperienza fallimentare riaccende la domanda.
Lasciamoli sbagliare, accompagniamoli nei loro sbagli, senza troppo giudizio, aiutiamoli a decifrare la realtà attraverso il nostro esempio, innanzitutto, attraverso fatti, smettiamo di educarli a parole anticipandoli sempre, non lasciandoli di fatto liberi.
Appunti presi, e non rivisti dall’autore, all’incontro “Nessuno genera se non è generato”, organizzato dal centro Culturale Sant’Andrea il 20 gennaio 2023, a Carugate