Sono un povero prete.
Guardatemi. Che pretendete
da me – che ne sapete,
con tutti questi miei bottoni
addosso, il collaretto
rigido così stretto
alla gola,
– il cilizio,
l’uffizio, –
voialtri, di vocazioni?
Non fatemi interrogazioni
spavalde. Non mi deridete.
So bene che tutti voi avete
– e vi ammiro – il piede
saldamente posato
sulle cose concrete.
Avete fatto carriere
splendide. Io, da soldato
semplice, il mio dovere
e stop. Ma, vedete:
altra cosa è la fede.
Lasciatemi. Che mai volete
da me – da questa mia
miseria senza teologia?
So anche che voi non credete
a Dio. Nemmeno io.
Per questo mi sono fatto prete.
Ma, amici, non mi fraintendete.
Per tutti, c’è una parete
in cui dobbiamo cozzare.
Da giovane amavo arraffare
anch’io, con la vostra sete.
Che traffici e che mercanzie
(che lucri, e che profezie
stupende per il futuro)
senza conoscere muro
di sorta, a potermi frenare!
Fors’era in me un sessuale
émpito di voler arricchire.
La Genova mercantile
dei vicoli – l’intestinale
tenebra dov’anche il mare,
se s’ode, pare insaccare
denaro nel rotolio
della risacca (ma io,
scusate, non mi so spiegare
troppo bene), il Male
in me sembrava inculcare
con spasimo quasi viscerale.
Eppure, fu in quel portuale
caos, ch’io mi potei salvare.
Che dirvi, se la vera autrice
della mia conversione
ma sì: non ho altra ragione
da addurre) fu una meretrice?
Alessandra Vangelo
è il suo nome e cognome.
Di Smirne: una giunone
così – una dannazione
per me, privo di cielo
com’ero, – che per mia ossessione
(vedete: da lei non si stacca
la mia mente) impero
ebbe, giù da Porta dei Vacca,
fino a Vico del Pelo.
Ragazzi, che baldoria
quando, la gran baldracca
in gloria, la sua apparizione
faceva, in piena Portoria!
Natiche ne ho viste, e reni
altere, su tacchi alti.
Ma il petto (e io facevo salti
così, io, nel mio letto),
quel petto che esortazione,
gente, era all’erezione!
Eh sì, sarebbe canzone
lunga, se dovessi narrare
com’io, ormai costretto
da un impeto di liberazione,
sfogai, fino all’estenuazione,
l’anima, in un portone.
All’alba me n’andai sul mare,
a piangere. Di disperazione.
Volavano bianchi d’ali
i gabbiani, e i giornali,
freschi ancora di piombo,
urlavano, in tutto tondo,
ch’era scoppiata la guerra
dappertutto, e la terra
(ancora io non sapevo i lutti
atroci: voi, i vostri frutti)
pareva dovesse franare,
sotto i piedi di tutti.
Fu lei a venirmi a cercare,
svampata di paura.
Me la sentii crollare
addosso, sfatta creatura,
gemente, nel suo singhiozzare,
la perdita del suo introitare.
Fratelli, per norma ai lagni
delle femmine, mai
ho voluto dar retta.
Ma lì sentii una stretta
al cuore, e dei miei guadagni
(dei vostri! giacché tale
è la vita mortale)
mi vergognai, come
non so dir la ragione.
So che mi misi a pregare,
èbete, caduto in ginocchio.
E so che fissando l’occhio
torbo di lei, la parete
scòrsi, dove s’ando a infrangere
(vi prego, non mi deridete)
la marea di quel piangere.
Capii a quali danni
portassero gli immondi affanni.
E mi sentii morire,
credetemi, con un’irreligione
che, senza fare eccezione,
pone nell’arricchire
(e nel riuscire) il solo
scopo delle sue mire.
Rimasi, come dire?
stranito. Come un usignolo.
Mi feci piccolo. Solo.
In disparte. E se l’arte
posso ancora ammirare
vostra, che con le carte
in regola a costruire
v’indaffarate un presente
che non guarda al domani,
io (vi giuro: le mani
mi tremano) non so più agire
e prego; prego non so ben dire
che e per cosa; ma prego:
prego (e in ciò consiste
– unica! – la mia conquista)
non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista.
Questo faccio per voi,
per me, per tutti noi.
D’altro non mi chiedete.
Sono un semplice prete