Piscina feriale – Cesare Pavese (Racconti, 1960)

È bella la nostra piscina color verdemare sotto il sole e intorno cespugli che nascondono le case e i viali, e più lontano colline basse, così bella che qualcuno di noi si alza ogni tanto, dà un’occhiata comprensiva e fa un passo, poi respirando con un sospiro chiude gli occhi e torna a stendersi tacendo. Se una donna fa questo, tutti la guardiamo; poi gettiamo un’occhiata al cancelletto d’ingresso dove non entra nessuno. Sappiamo che il sole e l’acqua verde bastano a riempire la mattinata – di tanto in tanto uno di noi si alza e si butta in acqua –, ma il sospetto di ognuno è che cosa farebbe se la piscina fosse deserta e gli toccasse godersi da solo tanta luce e tanto sereno.

In verità siamo tutti in attesa. Ce lo diciamo con frasi scherzose o indolenti, voltando appena il capo, muovendo le labbra che sanno di sudore. Le due compagne che sono con noi stanno sedute o distese secondo che richiede il sole  o la voglia mutevole. La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla varia attesa, dal vuoto instabile che la tentazione di tacere crea dentro di noi.

La piscina è molto grande, ma non ci viene in mente di percorrerla scavalcando i corpi o osservando. Uno non ha curiosità in piscina. Per quanto circondato da volti e da corpi amici, preferisce lasciarsi sorprendere da improvvise solitudini. C’è della gente che strilla e che ride: si direbbe che per loro l’attesa è finita. Si guarda, si vedono schiuma, corpi nudi, spruzzi; sono ragazzi, sono giochi. Non è ancora questo: non per noi, almeno.

La nudità del cielo fa appello alla nostra. È difficile nascondere pensieri in questa insolita nudità. Ci si riscuote appena, ci si sente visibili come ciottoli in fondo all’acqua.

La nostra solitudine è un vuoto, un’immobilità dei pensieri. Soltanto così ci resta in cuore qualcosa di nostro. A volte ce ne dimentichiamo, e diciamo a voce alta cose che subito suonano superflue, già sapute dagli altri.

Chi di noi lascia il gruppo per buttarsi in acqua, ha l’aria di scusarsi e invita gli altri a seguirlo, a tenergli compagnia. Le nostre compagne lo guardano, e sorridono. A volte si alzano anch’esse, a volte ci alziamo tutti, e scendiamo nell’acqua.

Non si sfugge, nemmeno nell’acqua, alla solitudine e all’attesa. Qualcuno di noi scende al fondo, scende a toccare il cemento; è una cosa insolita, e tutti gli istanti che trascorre sommerso nell’acqua verde sono un modo di nascondersi, di essere solo. Quando ritorna tra noi, taciturno, è l’unico che ha l’aria di non attendere qualcosa.

Che cosa deve dunque accadere? Se ne parla, di tanto in tanto, quando il gruppo si va ricomponendo. È una questione che ci appassiona; qualcuno non capisce subito quando il più vivace di noi la intavola, ma poi gli viene spiegata e anche lui s’incuriosisce. «Siamo qui per bagnarci e per prendere il sole», diciamo. Ecco. «Siamo qui per stare insieme». Ciascuno di noi penso che, se la piscina fosse deserta, non reggerebbe a starsene solo, sotto il cielo.

Una nostra compagna sorride e, siccome è seminuda, si capisce che pensa che siamo qui per farle corona. «Anche questo è vero», dice un altro. «Sì, sì». Ma siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda.

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