Abitare il mondo, di Francoise-Xavier Bellamy

“Il mondo che abitiamo non è fatto solo di materia: perché possiamo abitarlo, perché sia abitabile, l’intelletto deve individuarvi ciò che si sottrae al movimento e che dà senso ai nostri spostamenti.

Abitare il mondo è ben diverso dal trovarvi riparo. All’essere umano non basta trovare un rifugio che lo protegga dalle intemperie e gli garantisca una protezione contro i pericoli esterni. Nessun essere umano ha bisogno solo di un “tetto”. Abbiamo bisogno di una dimora, di un luogo dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi famigliare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi. La casa è il centro costruito da una libertà, da una memoria, da un’esperienza e intorno al quale si organizza la consapevolezza dell’universo intero…

[…] In uno spazio dove si incontrano degli individui senza origine né destinazione, si devono costruire degli “alloggi”, punti di passaggio dove verranno ad “alloggiare” quel che siamo diventati: esseri mobili in trasferta. L’alloggio esprime il carattere strettamente fisico delle scatole indifferenziate a cui sono destinati gli esseri umani, degli “spazi funzionali” dove potranno fare le soste concesse dal ritmo quotidiano, proprio come una biglia a fine cora viene a conficcarsi nello spazio vuoto allestito per stoccarla.

[…] Mai abbiamo così poco “abitato”, appunto perchè il nostro rapporto con il mondo lo ritiene uno spazio indifferenziato dove la mobilità universale ci impone comoe unico criterio quello dell’utilità, della redditività; mentre l’abitazione è caratterizzata da quel che introduce nel mondo di gratuito, di superfluo, di singolare, facendone una dimora famigliare, la cui singolarità coltivata e maturata sfugge a qualsiasi calcolo. I nostri antenati hanno dipinto le pareti delle proprie grotte e decorato gli accessi, cosicché esse conservano tuttora la traccia di coloro che ci hanno vissuto e che da semplici ripari ne hanno fatto le loro abitazioni. Quei dipinti non erano “funzionali” e non avevano altra ragione se non quella di fissare nello spazio il segno di una coscienza umana che marca il proprio territorio e che rende riconoscibile la propria dimora…Sarebbe bastata la grotta, come alloggio, ma per abitarci ci volevano dei dipinti.

[…] Nel superfluo che distingue l’abitazione dall’alloggio sta quanto è più necessario all’uomo: il bisogno di radicamento, che è uno dei bisogni essenziali dell’anima umana.

[…] Si potrebbero produrre all’infinito alloggi tutti uguali, ma non si trovano due focolari simili. Il focolare domestico è dimora appunto perchè supera la circolarità organica del bisogno, e così crea una storia, che parte dal punto centrale che va sistemato. Si può definire la dimora solo fondandosi sul senso del tempo lungo, di ciò che sopravviverà a noi. Infatti, la dimora si trasmette, in essa si concentrano i ricorsi, le esperienze passate, quelle che ci legano alle generazioni precedenti, la memoria della famiglia e il sentimento dell’universo familiare che le si organizza intorno.

[…] Nel mondo moderno si è ampiamente perso il senso della dimora, come se non si sapesse più abitare, costruire o pensare qualcosa di duraturo.

Il costruire viene standardizzato secondo una mera razionalità economica. Sebbene si disponga di capacità tecniche assai superiori a quelle della generazioni passate, si costruiscono degli edifici ben più effimeri che non cercano di superare, sia pur di poco l’orizzonte dell’immediata necessità. Il rapporto razionalizzato con lo spazio non lascia più filtrare nulla di superfluo o di gratuito e ciò rende i paesaggi uniformi in una fredda indifferenza.

Tratto da: “Dimora, per sfuggire all’era del movimento perpetuo” di Francois-Xavier Bellamy, edizioni Itaca

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