L’educazione secondo Giacomo Contri

C’è una frase molto celebre di San Paolo: “Omnia probate, quod bonum tenete”. Provate tutto, mettete alla prova tutto.

E’ esattamente quello che fa il bambino: in lui da quando va a quattro zampe il provare è vistoso. Solo quando diventa più grande gli occhi diventano ciechi. Perché il bambino si mette in bocca qualsiasi cosa? Non crederete che lo faccia perché è cretino, come leggete nelle premesse di tutta la psicologia infantile! No, il bambino lo fa per mettere alla prova un pezzo del reale; incomincia a provare, a prendere in esame le cose con i pochi mezzi di apprezzamento che sono in sua dotazione: in questo caso il gusto, le mucose, la lingua. Ha cominciato con il latte, che gli piace; prova anche con qualsiasi cosa che si trovi davanti: esempio perfetto di razionalità che parte dall’empiria più diretta. E se gli piace lo tiene.

Imparate dal bambino. Se volete essere un po’ educatori dei bambini iniziate dal fatto che il bambino, senza che nessuno glielo abbia insegnato, parte – lo sottolineo – dalla più sofisticata frase colta che possiamo conoscere: “provate tutto e trattenete il valore”. E’ un giudizio: ciò sta bene.

“provate tutto e tenete per voi quello che giudicate buono”: il bambino già lo fa, e nessuno glielo ha insegnato.

Poi viene un secondo tempo. Il bambino, che è partito da una precocissima capacità di giudizio, senza che nessuno gliela abbia insegnata, il bambino, che non è una lavagna vuota su cui scrivere, incomincia a corrompersi.

E’ la caduta e il punto di inizio dell’educazione.

Detto in altro modo, e alzando i toni, ma senza saltare a un piano superiore: la parola educazione, amatissima da Robespierre, non è parola di buona famiglia, non nasce bene, neanche teoricamente. E’ un campo di battaglia, e, come in tutte le battaglie, fa stare da una parte o dall’altra, distinguendo vita e vita, società e società.

Qual è l’una e qual è l’altra?

Un’idea di educazione è quella che caratterizza il totalitarismo: l’educazione al primo posto.

Equivale a dire: non è vero che il bambino vaglia tutto e si prende ciò che va bene. Il bambino è zero, non giudica e non vaglia, ossia non esiste. Tabula rasa, vi scrivo sopra.

C’è una seconda idea di educazione, in cui l’educazione viene al secondo posto.

E consiste di due componenti.

La prima: se è vero che il bambino sa giudicare tutto per tenere il buono, vuol dire che parte da una maturità iniziale. Esiste, del resto, un livello più alto di maturità?

Se poi il bambino si allontana – e prima o poi si allontana – da questa autentica facoltà di cui è dotato, non importa se dalla natura o da Dio – sono solito chiamarla principio di beneficio, Freud lo chiamava principio di piacere – l’educazione è lavorare a ricondurvelo. Si chiama riabilitazione.

L a seconda. L’educazione consiste nel fornire al provare, che è già del bambino, tutto ciò che egli non ha i mezzi immediati per procurarsi da sé, perché sia effettivamente in grado di mettere alla prova tutto. Ad esempio: le materie scolastiche: il greco, piuttosto che la matematica, l a geografia, ecc. Berlinguer, e insieme a lui tutto il resto, tutta l’America, di cui Berlinguer è solo un cascame, hanno abolito questa idea.

Se faccio l ‘insegnante e insegno latino, ciò che insegno al mio allievo acquista una definizione precisa. Se è lui a provare, come il bambino che si mette in bocca quanto ha trovato per vedere se è buono, compie un lavoro che crea il prodotto finito. Il prodotto finito è fatto per lo studente.

L’insegnante gli procura la materia prima, il semilavorato, affinché l’altro vi metta il suo lavoro.

La scuola non è in funzione del mercato del lavoro: la scuola è già al lavoro e il ragazzo compie la seconda parte di lavoro, subentrando sulla prima parte di lavoro compiuta dall’insegnante.

Sono contrario all’idea di scuola schiavizzante che la scuola sia un pre-mondo del lavoro.

La scuola è già al lavoro.

Potremmo chiederci qual è il prodotto che possiamo attenderci dall’educazione. Il termine produrre va bene, perché indica qualcosa che arriverà, ma meglio sarebbe chiedersi che cosa dobbiamo attenderci da un figlio. La risposta è condensabile in una battuta: soltanto che sia figlio, ossia che il mio bene sia ereditariamente anche suo.

[…] Traditio non significa, come invece sostiene l’insegnamento di oggi, comunicare.

Nel mondo latino traditio era la trasmissine di un bene fisico e godibile, materiale e non materiale, di un fondo, di una casa. […] Contenuto della traditio non era un dovere, ma un beneficio. Oppure, con una coppia di parole più nota: non un dovere, ma un piacere. Oggi è messo tutto sul conto del dovere.

Il rischio dell’insegnante è lavorare, cioè investire, su ciò che è tradizione per lui, su ciò che è buono per lui, su ciò che interessa a lui, al quale si dedica volentieri per il fatto che gli va.

Risulta chiaro, credo, che me la sto prendendo con la psicologia dominante: il bene non è una cosa da apprendere, ma da prendere. E’ un possesso.

  • Stralci di un intervento al convegno organizzato dalla scuola “La Carovana” di Modena, dal titolo: “L’adulto alla prova, il rischio educativo”. 17 aprile 2000

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