De inventione – Alessandro Manzoni

In questo mirabile dialogo (tra due personaggi chiamati Primo e Secondo), Manzoni esprime le proprie idee sull’arte. L’artista non crea, inventa, cioè trova ciò che già c’è….Da standing ovation la discussione sul rapporto tra ragione e fede
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Per esempio, chi dice che il poeta differisce dallo storico, in quanto deve inventare, dice quanto basta a quell’intento;
ma mi lascia ancora da cercare cosa fa il poeta, quando inventa….

Vediamo, però: è una parola derivata; e delle volte, non sempre, nè ordinariamente, ma delle volte, l’intento di queste si
vede più spiegato e più deciso, guardando quelle da cui sono derivate.
Infatti: Inventore è un derivato da Inventum, o un frequentativo d’Invenire.
Ecco: se mi volete dire espressamente che l’artista trova, sono contento; perchè c’è sottinteso, e sottinteso necessariamente, che l’oggetto era,  prima che lui ci facesse sopra la sua operazione.

Secondo. Per me, non mi sento disposto, che a contradirvi.

Primo. È una maniera, anche codesta, d’aiutare uno che cerchi la verità.

Primo. Videbimus infra. Lo so io, e per mia propria esperienza,
come v’ho già detto, lo so io, certe verità troppo evidenti,
quante volte bisogna credere d’averle intese, prima d’intenderle davvero;
quanto ci voglia a imparare ciò che si sa di più; chi non ci sia arrivato da sè.

Secondo. Ma era dunque un’altra insidia?

Primo. Sono le care insidie della verità.
E insidie proprio nel senso primitivo della parola;
perchè la verità, quando si vuole scacciarla fuori della mente,
ci s’appiatta, insidet, finchè venga l’occasione di saltar fuori.
Ma sempre per far del bene…

Tutte le soluzioni, chi ci stia sopra, dopo essersene servito all’intento  per cui le cercava, conducono a de’ novi problemi, fino a quelle altissime  che, trovate da intelletti privilegiati, li lasciano, dirò così,  appiedi d’un mistero incomprensibile e innegabile, lieti del vero veduto, lieti non meno di confessare un vero infinito. E questo esser costretti a spezzare lo scibile in tante questioni;
questo vedere come tante verità nella verità che è una, e in tutte  vedere la mancanza, e insieme la possibilità, anzi la necessità
d’un compimento; questo spingerci, lasciatemi dire ancora, che fa ognuna di queste verità verso dell’ altre; questo ignorare,
che pullula dal sapere, questa curiosità che nasce dalla scoperta, come è l’effetto naturale della nostra limitazione, è anche il mezzo per cui arriviamo a riconoscere quell’unità che non possiamo abbracciare.

Ora, questo esser messi continuamente tra un sì e un no, è una suggezione insopportabile.
Si gradirebbe oggi una verità, ma rimanendo liberi (che questo s’intende spessissimo in fatto per libertà) di gradire domani una verità opposta.

E qui, oh che consolante differenza troverete nello studio che vi propongo!
E potete ben pensare che, dicendo: consolante, intendo una cosa che non appaghi il desiderio, se non soddisfacendo la ragione. Qui sentirete, a ogni passo, rassodarvisi il terreno sotto i piedi; qui il salire vi procaccerà un vedere tanto più fermo, quanto più esteso; qui, condotti sempre dall’osservazione, richiamati sempre alla vostra propria testimonianza, troverete alla fine, nelle formole più astruse al primo sguardo, il sunto di ciò che ognuno o crede abitualmente, o abitualmente sottintende…
Qui vi rallegrerete di sentire un vero rispetto per l’intelligenza umana, una fondata fiducia nella ragione umana, riconoscendo bensì come l’una e l’altra sia limitata nella cognizione della verità, ma sentendovi sicuri che non sono, nè possono essere condannate a errori fatali; anzi ricavando questa sicurezza anche da quel riconoscimento;
giacchè i limiti attestano il possesso, col circoscriverlo.
Un vero e alto rispetto, dico, per l’intelligenza e per la ragione comune, impresse, da una bontà onnipotente, in tutti gli uomini;
e in paragone delle quali, la superiorità degl’ingegni più elevati, è come l’altezze de’ monti, in paragone della profondità della terra. E non c’è scapito se, scemando un poco l’ammirazione per alcuni,
cresce la stima per tutti.

Aggiungo dunque, che, col rivendicare il possesso delle verità universalmente note, viene naturalmente un altro eccellente effetto: la manifestazione di verità recondite.
Non si può difendere (bene, s’intende) il dominio del senso comune, senza estendere in proporzione quello della filosofia. La verità non si salva, che per mezzo della conquista. E l’errore porta indirettamente questa utilità, che, cercando
nelle cose aspetti novi, provoca le menti savie a osservar più in là, e dà occasione, anzi necessità di scoprire. È come una pietra dove inciampa e cade chi va avanti alla cieca; e per chi sa alzare il piede, diventa scalino.

Secondo. Avete parlato di fiducia nella ragione, d’un gran rispetto per l’intelligenza umana. Se dicono invece, che questa filosofia pretende d’annullare la ragione, di non lasciare all’intelligenze altro lume, che l’autorità della fede….
Primo. È vero: non ci pensavo; ma come volete che non ci siano di quelli che lo dicono?
è il contrario appunto di quello che è. Nessuna filosofia è più aliena da un tale errore stranissimo, che fa di Dio quasi un artefice inesperto, il quale, per aggiungere un novo lume alla sua immagine, impressa, per dono ineffabile, nell’uomo, avesse bisogno di cancellarla; errore che fa del cristiano quasi una nova, anzi un’inconcepibile specie d’animale puramente senziente, al quale venisse, non si sa come, aggiunta la fede. Sicuro, che è una filosofia naturaliter christiana, come disse profondamente Tertulliano, dell’anima umana.
Sicuro che, dopo aver percorso liberamente e cautamente (che in fondo è lo stesso) il campo dell’osservazione e del ragionamento, si trova, per dir così, accostata alla fede, e vede negl’insegnamenti, e ne’ misteri medesimi
di questa il compimento e il perfezionamento de’ suoi resultati razionali.
Non che la ragione potesse mai arrivar da sé a conoscer que’ misteri; non che, anche dopo essere stata sollevata dalla rivelazione a conoscerli, possa arrivare a comprenderli; ma n’intende abbastanza (mi servo della bella distinzione ricavata da questa filosofia medesima) per vedere che le sono superiori, non opposti, e che è quindi assurdo il negarli;
n’intende abbastanza per trovare in essi la spiegazione di tanti suoi propri misteri:
come è del sole, che non si lascia guardare, ma fa vedere.
Non che, dico, le più elevate e sicure speculazioni della filosofia possano mai produrre la sommissione dell’intelletto alla fede;
che sarebbe un levar di mezzo questa sommissione medesima; cioè non sarebbe altro che una grossolanissima contradizione.
Ma, siccome i falsi concetti, i sistemi arbitrari intorno alla natura dell’uomo , e ai più alti oggetti della sua cognizione, possono opporre, e oppongono in effetto, degli ostacoli speciali a questa sommissione (giacchè, essendo la verità una,
ciò che è contrario ad essa nell’ordine naturale, viene ad esserle anche nell’ordine soprannaturale,
quando l’oggetto è il medesimo), così una filosofia attenta a riconoscere in qualunque oggetto
ciò che è, senza metterci nulla di suo, può, sostituendo de’ concetti veri ai falsi, rimovere quegli ostacoli speciali; dimanierachè, scomparsa l’immaginaria repugnanza della ragione con la fede, non rimangano se non le repugnanze che Dio solo può farci vincere: quelle del senso e dell’orgoglio.
In questa maniera la filosofia di cui parliamo è una filosofia cristiana; ma vi par egli che sia a scapito della ragione?
E che? si vorrebbe forse, che, per esser razionale, per rimaner libera, una filosofia dovesse pronunziare o ammettere a priori,
che tra la ragione e la fede c’è repugnanza? cioè, o che l’intelligenza dell’uomo è illimitata,
o che è limitata la verità? Questo sì, che sarebbe anti-razionale, anti-filosofico, per non dir altro.
Questa sì, che sarebbe servitù, e una tristissima servitù. Le tengano dietro, passo passo, a questa filosofia;
e quando trovino che o sciolga o tronchi con l’autorità della fede questioni filosofiche, dicano pure che cessa d’esser filosofia.
Ma sarebbe una ricerca vana; e è più spiccio, per gli uni l’affermare, per gli altri il ripetere. F non voglio dire però,
che una scienza ignara della rivelazione sarebbe potuta arrivare tanto in là, e abbracciare un così vasto e ordinato complesso;
ma, qual maraviglia, che, venendo la ragione e la fede da un solo Principio, quella riceva lume e vigore da questa, anche per andare avanti nella sua propria strada?
È il caso opposto, e insieme perfettamente consentaneo a quello che ho accennato dianzi.
Come gli errori scientifici possono nella mente dell’uomo, essere ostacoli alla fede; così le verità rivelate possono essere aiuti per la scienza: poichè, facendo conoscer le cose nelle loro relazioni con l’ordine soprannaturale,
le fanno necessariamente conoscer di più; e quindi la scienza può procedere da un noto più vasto alle ricerche e alle scoperte sue proprie.
Ora l’accrescere le forze d’una facoltà, è forse uno snaturarla? Il somministrarle novi mezzi, è forse un distruggerla?
E una cosa perduta di notte, non è forse più quella, quando si sia ritrovata di giorno? E la dimostrazione lascia forse d’essere l’istrumento proprio e legittimo della filosofia, quando la mente sia stata aiutata a trovarla da qualcosa di superiore alla filosofia? Quando per esempio, que’ due filosofi, il vescovo d’Ippona e il frate d’Aquino, osservano, e pretendono di dimostrare che, in ogni creatura, si trova una rappresentazione della Trinità (nelle ragionevoli, per modo d’immagine e di somiglianza;
in tutte per delle indicazioni della Causa creatrice, inerenti in esse);
quando il filosofo roveretano, dietro un’osservazione più generale e più immediata, della natura medesima dell’Essere, osservazione, per conseguenza, feconda di più vasta e varia applicazione, pretende di dimostrare che l’Essere è
essenzialmente uno e trino; cos’importa, relativamente al valore scientifico dell’osservazione, che questa sia stata indicata, suggerita dalla rivelazione! Forse che le qualità intrinseche delle creature, e la natura essenziale dell’Essere,
non sono materia della filosofia, oggetto della ragione? Si dimostri (vorrei vedere con quali argomenti) che quegli uomini, in vece d’osservare, hanno immaginato; che hanno posto nelle creature, e nell’Essere in genere,
quello che non c’è; e s’avrà ragione di rigettar le loro dottrine.
Ma escluderle a priori, come estranee alla filosofia; ma opporre al ritrovate la cagione divinamente benefica che diede avvio e mezzo alla ricerca, è (dico sempre riguardo alla mera ragione dialettica) ciò che sarebbe l’opporre alle scoperte scientifiche del Galileo e del Newton la lampada che oscillò davanti al primo, e la mela che cadde davanti al secondo.
E quando, dall’avere esaminata la teoria rosminiana della scienza morale, teoria connessa indivisibilmente con l’intero sistema, avrete a concludere che è rigorosamente conforme alla ragione l’amar Dio sopra ogni cosa, e
il prossimo come sè medesimo, cosa detrarrà alla forza filosofica de’ ragionamenti, e alla legittimità della conclusione, il riflettere che la filosofia non illuminata dalla rivelazione, filosofia capace bensì di discernere molte verità morali, e di riunirle in teorie giuste e vere, quantunque incomplete, non sarebbe però potuta salire fino a queste verità
così principali? Potrete voi dire che, nel riconoscere ciò che non avrebbe potuto conoscer da sè, la ragione non faccia un’operazione sua propria?
E ora voi indovinate sicuramente, che uno degli effetti di questa filosofia, de’ quali v’avrei parlato, se non avessi temuto di riuscirvi indiscreto; anzi l’effetto più consolante e più importante, è appunto questo di cui le si fa così stranamente un’obiezione.

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Alessandro Manzoni, 1850

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