Dal libro di Philippe Meirieu, I compiti a casa, Feltrinelli
Se non studi “domenica non andrai alla partita!”.
“Dopo tutto quello che ho fatto per te…”
“Se mi volessi bene studieresti!”
Siamo ben consapevoli dell’inutilità di simili affermazioni,che fanno scadere l’educazione a livello di un mercato,in cui si scambia l’affetto contro bei voti: non dobbiamo pretendere l’amore dei nostri figli,dobbiamo meritarlo.
I nostri figli non ci devono niente; siamo noi a dover tutto a loro. L’educatore ha doveri illimitati rispetto a
colui o colei che ha messo al mondo e che deve “introdurre nel mondo”. Colui che arriva ha doveri soltanto verso
se stesso e verso il mondo. Mi ripaga già a sufficienza per quello che do il semplice fatto che “l’altro ha bisogno di me” e, con ciò, giustifica una parte della mia esistenza.
Non c’è niente di più triste di questa contabilità materiale e affettiva, in cui ben presto scompare qualsiasi dono autentico.
Non amiano i nostri figli perchè ci amino…
Niente nei nostri atteggiamenti e nelle nostre affermazioni deve lasciar pensare che consideriamo la
passione per lo studio e i risultati ottenuti come prove d’affetto, e il loro contrario come segni di tradimento.
Lo sanno tutti, eppure tutti, prima o poi, cadono nella tentazione di pretendere lo studio o un buon risultato a scuola come segno
di riconoscenza o prova d’amore, preparando così lo scatenarsi del dramma. Quando “non capire”, “non sapere”, “non aver voglia di studiare” diventano una colpa, o peggio, un tradimento dell’amore dei genitori, allora l’insuccesso scolastico si trasforma in sofferenza.
Molto spesso la resistenza allo studio da parte di un bambino o di un adolescente va ricercata nell’incapacità di riconoscerne il senso.
Il bambino, che non nutre interesse per lo studio vede confermata la propria opinione secondo la quale studiare
non può avere alcun senso nel presente, nè può procurargli soddisfazione qui ed ora. Si tratta di un “amaro calice” da vuotare per poter accedere, in seguito, molto più tardi, a soddisfazioni superiori.
Bisogna riconoscere che, perlopiu’, a scuola il senso è ampiamente assente: quasi sempre, vi si imparano le “istruzioni per l’uso” (regole, formule, teorie), ma senza poter usare la “macchina”, senza neppure intuirla o poterla immaginare: perchè aver elaborato quella formula in quel momento e in quel contesto?
“Da quando vado a scuola”, mi confessava qualche tempo fa uno studente di terza, “ho scritto migliaia di pagine. Mi hanno sempre corretto, ma non mi hanno mai risposto”.