Stralci di un articolo pubblicato dal settimanale Tempi, il 23 settembre 2013.
La domanda sul perché si insegna e sul perché si apprende costringe a superare la sfera della mera funzionalità dei ruoli e porta a riconsiderare la scuola come un luogo – ossia un insieme ordinato di spazio e tempo – in cui una società adulta incontra le giovani generazioni, attraverso la comunicazione del proprio sapere e la sua costante verifica. Se si sottraggono la cultura e l’istruzione alle riduzioni cui possono andare incontro – nozionismo, enciclopedismo, ideologismo, funzionalismo pratico – esse appaiono come la grande occasione che a ogni essere umano è data di “aprirsi e incontrare il mondo”, di conoscere le sue leggi e i suoi fenomeni, di imparare a prevedere e a progettare, di acquisire consapevolezza di sé e coscienza delle cose.
In ciò risiede propriamente il valore educativo delle discipline e delle materie insegnate a scuola, non nel far apprendere questa o quella opinione – quale genitore, si chiedeva già Agostino, sarebbe così scellerato da mandare suo figlio a scuola perché impari ciò che pensa il maestro? –, ma nel far conoscere, mediante teorie, interpretazioni e testi, un pezzo in più di realtà.
(…) La qualità della scuola, così sinteticamente accennata, si presenta come il vero obiettivo di ogni azione riformatrice e di ogni impegno, singolo o collettivo, che si intenda assumere nel campo dell’istruzione. E se al raggiungimento di tale scopo possono concorrere vari e distinti fattori (…) ve ne sono alcuni che, in misura superiore ad altri, segnano la differenza. Fra questi, quello che viene riconosciuto, nell’ambito della ricerca internazionale, come maggiormente influente è la figura dell’insegnante e il suo ruolo nella scuola.
Si sente spesso dire che gli insegnati versano in una grave crisi di identità e di motivazione.
La trasformazione della loro funzione, da professionale a impiegatizia, l’assillo di sempre più invasive pratiche burocratiche, le difficoltà quotidiane e non di rado la solitudine nella quale si trovano ad affrontarle, la progressiva perdita di riconoscimento sociale possono generare un senso di insoddisfazione e di disagio, facilmente riconoscibili. Nella sua drammatizzazione più acuta tale condizione può toccare vertici davvero inquietanti, come quelli espressi dall’insegnante di letteratura, protagonista di un recente film, Detachment, che, in un momento di singolare lucidità, confessa che «quando i nostri studenti ci incontrano, guardano un volto e vedono il vuoto».
Tuttavia sarebbe un errore insistere su tali considerazioni, che contribuiscono inevitabilmente a diffondere stereotipi e pregiudizi e non danno conto dei tanti insegnanti che ogni giorno, con il loro lavoro e il loro impegno, permettono alla scuola di esistere e di essere utile a migliaia di giovani. Né tengono in conto il fenomeno, abbastanza recente, del ritorno all’insegnamento di un numero crescente di giovani laureati, che riscoprono tale “mestiere” come “vocazione”. Sarebbe perciò più proficuo trattare la questione dell’insegnante in termini dinamici e propositivi, quali possono ad esempio essere: la ridefinizione dello stato giuridico dell’insegnante, la valorizzazione del merito, l’eliminazione di automatismi e rigidità nelle assunzioni e nella carriera, lo svecchiamento del corpo insegnante grazie all’immissione di giovani, la formazione continua e la valutazione, intesa anzitutto come incentivo al miglioramento e all’innovazione.
In aula con una domanda
È tuttavia evidente che gli insegnanti non sono lo scopo della scuola. Quando lo diventano, allora la scuola stessa subisce una radicale deviazione del suo asse, assumendo compiti e funzioni improprie, come ad esempio quello di essere una sorta di ammortizzatore sociale o l’occasione di organizzazione di interessi politici. La scuola è invece principalmente per gli studenti e per la loro crescita, per lo sviluppo delle loro capacità e doti individuali, sia intellettuali sia umane e morali, senza mai dimenticare che ogni difficoltà può essere affrontata e che ogni studente che ha abbandonato la scuola – fenomeno purtroppo ancora frequente – ha avuto almeno una buona ragione per farlo.
Di qui l’importanza della personalizzazione nei percorsi scolastici. Se formalmente la scuola è il luogo della “istruzione”, questa non può ridursi a sterile nozionismo o a banale ripetizione di cose sentite e lette, ma deve incontrare i desideri e l’intelligenza dei giovani e rappresentare per loro la grande occasione per conoscere il mondo, introdursi nella realtà, divenire consapevoli di se stessi, e rispondere così a quell’innata curiosità che è l’anima di ogni vera ricerca e conoscenza. «Non posso immaginare – ha osservato Ken Robinson in 10 Questions, sul Time Magazine – che uno studente si alzi al mattino con la speranza di migliorare il punteggio dei test nazionali».
Il suo bisogno, le sue domande, le sue attese sono ben altra cosa, che solo un’istruzione personalizzata – non la mera realizzazione di programmi o il condizionamento degli studi provocato dai test di valutazione – può prendere in considerazione e cercare di darvi risposta. Sicché sarebbe più corretto affermare che gli studenti non sono i destinatari, ma i protagonisti dell’istruzione, non per avallare forme di superficiale autodidattismo, bensì per riconoscere la loro dignità e il loro essenziale ruolo in un corretto rapporto educativo con gli adulti e, in generale, con il mondo della cultura e della scienza. Prima di essere anagrafico, l’invecchiamento di un paese dipende dalla perdita di attenzione per il potenziale di intelligenza portato dalle giovani generazioni e dai timori, o dagli interessi, con cui esso viene mortificato e trascurato.
Al contrario, un paese non è “per vecchi” quando tutte le sue forze sono tese a potenziare il rapporto fra l’esistente e il suo rinnovamento attraverso un corretto e fecondo rapporto fra le generazioni, volto, appunto, a generare e a dare consistenza a chi, nel volgere di un breve tempo, avrà il compito e la responsabilità di costruire la società per tutti. È in questo senso che l’impegno per la scuola, per l’istruzione e l’educazione dei giovani si fonda sulla speranza ed è costantemente sorretto da essa, espressione di un ottimismo di fondo e di una realistica e positiva visione della realtà.