Magnifico ambasciatore. «Tarde non furon mai grazie divine».Dico questo perché mi pareva di aver non perduto, ma smarrito la grazia Vostra, essendo stato Voi molto tempo senza scrivermi; ed ero nel dubbio chiedendomi donde potesse nascerne la causa. E tutte quelle che mi venivano in mente, salvo una, le ritenevo di poco valore: il dubbio che voi aveste smesso di scrivermi poiché vi fosse stato scritto che io ero un cattivo custode delle Vostre lettere; ed io sapevo che, all’infuori di Filippo e Paolo, nessun altro le aveva viste. Ho riavuto la Vostra grazia con l’ultima Vostra del 23 scorso, e leggendola sono rimasto contentissimo nell’apprendere quanto ordinatamente e con calma esercitate il vostro pubblico ufficio; ed io vi incoraggio a seguitare così, perché chi trascura la propria agiatezza per l’agiatezza degli altri perde la sua e dagli altri non è ringraziato. E poiché la fortuna vuol dominare su ogni cosa, bisogna lasciarla fare, stare tranquillo e non contendere con essa e aspettare il momento che lei lasci agli uomini fare qualche cosa; e allora dovrà starvi bene lavorare di più, vigilare su più cose e io dovrò partire da questo paese e dire: eccomi. Pertanto non posso, per rendervi pari grazie, che dirvi in questa mia lettera quale sia la mia vita; e se voi giudicate che la mia vita possa essere barattata con la vostra, io sarò contento di mutarla.
Io risiedo in questa contrada; e dopo che furono risolte le mie disavventure, non rimasi a Firenze che per venti giorni, a metterli tutti insieme. Fino ad ora sono andato a caccia di uccelli con le mie mani. Mi alzavo prima dell’alba, accomodavo le panie, mi incamminavo con un fascio di gabbiette sulle spalle, che somigliavo al Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione; e prendevo da due a sei tordi. E così ho trascorso tutto settembre. Poi questo divertimento, anche se dispettoso e bizzarro, è mancato con mio dispiacere, e vi racconterò come si svolge la mia vita. Mi alzo al mattino al sorgere del sole e vado in un bosco di mia proprietà, che sto facendo tagliare, e vi sto due ore per vedere il lavoro svolto il giorno prima e trascorrere un po’ di tempo con i taglialegna, che sono affannati sempre da qualche lite fra di loro o coi vicini. E su questo bosco avrei da dire molte belle cose che mi sono accadute sia con Frosino da Panzano che con altri che volevano comprare la legna. E specialmente Frosino aveva mandato a prendere certe cataste senza dirmi niente; e al momento del pagamento, mi voleva defalcare dieci lire, che dice doveva avere da me da quattro anni e me le aveva vinte giocando a Cricca in casa di Antonio Guicciardini. Io cominciai a strepitare: volevo accusare di furto il carrettiere che era andato a prendere le legna. Alla fine intervenne Giovanni Machiavelli e ci mise d’accordo. Battista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e altri cittadini, ne presero una catasta a testa proprio mentre soffiava la tramontana. Io promisi a tutti; e a Tommaso ne mandai una che una volta arrivata a Firenze sembrava la metà, perché la rizzarono lui, la moglie, la fantesca e i figliuoli che sembrano il Gabburra quando di giovedì con i suoi garzoni bastona un bue. Per questo, visto quale era il guadagno, ho detto agli altri di non avere più legna; e tutti se ne ebbero a male, soprattutto Battista che conta questo fatto tra le altre sciagure di Prato.
Partito dal bosco, vado ad una sorgente e di qui in un mio boschetto preparato con le panie per la caccia.
Ho con me un libro, o Dante o Petrarca o uno di questi poeti minori come Tibullo, Ovidio e simili: leggo le loro amorose passioni e quei loro amori mi fanno ricordare dei miei: e sono felice per un po’ in questo pensiero. Mi porto poi sulla strada maestra e vado all’osteria: parlo con quelli che passano e chiedo le ultime notizie dei loro paesi e vengo a sapere cose diverse e osservo i gusti diversi e le strane fantasie degli uomini. Intanto arriva l’ora del pranzo, e con la mia famiglia mangio quei cibi che questo povero paese e il misero patrimonio mi consentono. Dopo aver mangiato ritorno all’osteria: qui di solito ritrovo l’oste, il macellaio, il mugnaio e due fornaciai. Con questi m’ingaglioffo per tutto il giorno giocando a cricca e a tricche-trach e ne nascono mille discussioni e infinite liti con parole ingiuriose; e il più delle volte ci si batte per un quattrino e ci sentono gridare perfino a San Casciano. Così mi volto e rivolto tra queste occupazioni grossolane e volgari, traggo il cervello dalla muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, mentre sono contento che mi calpesti su questa via, per vedere se se ne vergognerà.
Venuta la sera, ritorno a casa ed entro nel mio studio, e sull’uscio mi spoglio di quella veste quotidiana e plebea, piena di fango e di melma, e mi vesto con panni reali e curiali (nobili); e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, nelle quali, ricevuto amorevolmente da loro, mi nutro di quel cibo, il solo che fa per me e per il quale io son nato; e in quelle corti non mi vergogno di parlare con essi e chiedere la ragione delle loro azioni; e quelli, per la loro umanità, mi rispondono; e per quattro ore non sento alcuna noia; dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi turba la morte: tutto son preso da quegli incontri. E, come dice Dante che non c’è scienza senza ricordare ciò che si è capito, ho annotato le cose di cui ho fatto capitale durante quelle conversazioni, e composto un opuscolo De principatibus, nel quale approfondisco, per quanto posso, i ragionamenti su questo soggetto, trattando la natura dei principati, di quali specie sono, come si conquistano, come si mantengono, perché si perdono. E se qualche volta vi è piaciuto qualche mio piccolo scritto, questo non dovrebbe dispiacervi; e a un Principe, e soprattutto a un Principe nuovo, dovrebbe essere ben accetto: per questo lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha letto; vi potrà ragguagliare sia del libro in sè che dei ragionamenti che ho avuto con lui, anche se sempre io lo rivedo e lo perfeziono.
Voi vorreste, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita e venissi da voi a godere della vostra. Prima o poi lo farò; ma ciò che mi occupa in questo momento sono certi problemi che fra sei settimane avrò risolto. La cosa che mi fa nascere qualche dubbio è che si trovano là i Soderini, e venendo da Voi sarei costretto a far loro visita e parlar con loro. E dubito che al mio ritorno invece di scender da cavallo davanti a casa mia scenderei nel Palazzo del Bargello; perché, anche se questo stato ha un grandissimo fondamento e una grande sicurezza, tuttavia è nuovo, e per questo sospettoso; né mancano dei saputelli, che per mettersi in mostra, come Paolo Bertini, metterebbero gli altri in pericolo e lascerebbero a me il pensiero di come cavarmi dagli impicci. Vi prego di sciogliermi questo timore e allora verrò nel tempo che ho già detto.
Ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se era conveniente darlo o non darlo; ed essendo conveniente il darlo, se sarebbe stato meglio che lo portassi io o glielo mandassi. A non darlo ero indotto dal dubbio che da Giuliano non sarebbe stato nemmeno letto e che questo Ardinghelli si sarebbe fatto onore di questa mia ultima fatica. A darlo mi spingeva la necessità che mi assilla, perché io mi logoro, e non posso stare così ancora per lungo tempo, senza che io non diventi spregevole per povertà, oltre al desiderio che avrei che questi signori Medici cominciassero ad utilizzarmi, anche se dovessero cominciare col farmi voltolare un sasso; perché se non mi guadagnassi il loro favore, me la prenderei solo con me stesso; e per questa opera, se fosse letta, si vedrebbe che, nei quindici anni che ho studiato l’arte di governare lo Stato, non li ho trascorsi né dormendo né giocando; e ciascuno dovrebbe aver caro di servirsi di uno che è diventato esperto nell’arte del governare a spese di altri. E della mia lealtà non si dovrebbe dubitare, perché avendo sempre mantenuto la fedeltà, non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono per quarantatrè anni, quanti ne ho io, non deve poter mutare natura; e della fedeltà e bontà mia ne è testimonio la mia povertà.
Desidererei dunque che voi mi scriveste ciò che vi pare sopra questa materia.
E a voi mi raccomando. Sis felix.
Niccolò Macchiavelli, 1513