L’attenzione – Evandro Agazzi

Da un editoriale del Prof. Evandro Agazzi, pubblicato sulla rivista “La nuova secondaria”

La formazione della capacità di attenzione è uno degli scopi principali
e degli obiettivi più elevati dell’insegnamento, specialmente dentro la
scuola secondaria superiore. Questa può sembrare un’affermazione esagerata,
ma il suo suono paradossale deriva dal fatto che l’attenzione
vuole essere qui intesa in un’accezione assai più ricca che non il
significato meramente psicologico che le viene attribuito.
Questo la identifica in sostanza come uno sforzo di concentrazione,
mentre noi vogliamo ora considerarla in una dimensione assai più
ampia, autenticamente spirituale e non semplicemente psicologica,
il che ci permetterà di vedere come ogni sforzo autentico di attenzione
(in particolare anche quella che si esercita nelle più svariate occasioni
dello studio), non vada mai perduto, proprio ai fini di una generale
crescita spirituale e umana. L’attenzione, in questo senso più completo,
è l’attitudine a rendersi disponibile verso la verità, verso l’autenticità
delle cose, non per pura curiosità o leggerezza, ma con il desiderio
di veder chiaro ciò che è e ciò che deve essere, desiderio che, se è sincero,
comporta anche l’impegno a commisurare il proprio modo di essere e di agire su
questa autenticità che si è colta.

Un obiettivo tanto elevato non si consegue d’un balzo o in modo puramente
spontaneo, ma, come tutti gli “abiti”, richiede esercizio e disciplina
interiore. Però, come tutti gli “abiti” è qualcosa che si costruisce impercettibilmente
poco alla volta e in cui nessuno sforzo è mai perduto.
Ecco perchè possiamo dire che, se si cerca con autentica attenzione la soluzione
di un problema di matematica e ci si trova, dopo un’ora, più o meno al punto
di partenza, si saranno egualmente fatti dei progressi dentro di noi,
si sarà aumentata la nostra capacità di illuminare le cose e sarà magari
proprio a questo sforzo che, senza saperlo, ci troveremo un giorno
più capaci di afferrare la bellezza di un verso leopardiano, di cogliere
la profondità di un pensiero filosofico, di discernere con maggior sicurezza
entro un giudizio morale, di pregare in modo più interiore ed elevato.

La vera radice dell’attenzione, dunque, è un atteggiamento di apertura disinteressata
e contemplativa verso la la verità, il che, applicato allo studio, significa che esso
deve essere concepito in questo spirito, al di fuori della preoccupazione
di ottenere buoni voti o la promozione, e applicandosi con pari amore alle
materie che ci piacciono e per le quali abbiamo una inclinazione spontanea, quanto
a quelle che ci riescono più ostiche. Anzi, molto spesso è proprio nel caso di queste ultime
che lo sforzo di attenzione riesce più fruttuoso….
Possiamo dire che la grande differenza tra uno studio “nozionistico” ed uno “formativo”
sta tutta qui: il primo riempie la memoria di nozioni che di solito si cancellano
altrettanto rapidamente di quanto sono state forzatamente immagazzinate senza ottenere la
nostra autentica e profonda attenzione, l’altro è quello in cui nulla è passato invano sotto i nostri occhi,
dalle cose più interessanti a quelle più noiose, e agli stessi errori.
Sì perchè anche la considerazione dell’errore ha una funzione importantissima.
Poche cose sono più costruttive che il contemplare attentamente e con piena onestà
intellettuale un proprio compito sbagliato, senza cercarsi scuse, senza sorvolare sulle
correzioni e osservazioni del professore, ma cercando di rendersi ragione di ogni errore e di ogni
svista, di risalire alla loro origine, per capire come si sarebbe dovuto o potuto evitarli.
Certo, la tentazione di fare il contrario è fortissima ed è spesso sorretta dalla solidarietà dela
famiglia e dagli amici, ma si tratta di una forma psicologica di autodifesa che va compresa
e smascherata da parte di noi stessi, come un pericolo di cecità dal quale dobbiamo con ogni
sforzo difenderci.

Anche le poche cose dette ci consentono di comprendere come l’attenzione sia cosa molto diversa, come già
dicevamo, dal modo più comune di intenderla, che ne fa qualcosa di molto simile a uno sforzo muscolare.
Quando l’insegnante dice ai suoi allievi: “Ora fate bene attenzione!”, quelli che gli danno retta
aggrottano le ciglia e si concentrano in una tensione psico-fisica ma, dopo due minuti, non è improbabile che, se si chiede loro
a che cosa hanno fatto attenzione, non sappiano rispondere: non hanno fatto attenzione a nulla, si sono concentrati nello
sforzo, più che “aprirsi” a ciò che veniva loro proposto.
Quanta parte dei nostri studi è stata sciupata in questa forma di fatica “muscolare”!.
Quante volte, dopo aver sgobbato per varie ore sui libri e sui quaderni, ci è parso di aver lavorato
“sodo”! E invece non si è tanto lavorato quanto “faticato”, perchè lavoro è propriamente lo sforzo che porta frutto,
sia esso faticoso o no. E tutte le volte che, dopo aver faticato duramente per affrontare un esame ed averlo magari superato
brillantemente, ci è capitato di aver dimenticato quasi tutto nel giro di un paio di giorni, possiamo esser quasi certi che avevamo
più che altro faticato, che il nostro non era stato uno sforzo di attenzione per arricchirci, ma un duro scotto pagato per ottenere
un risultato pratico e che dunque, una volta ottenuto quel risultato, si è dileguato nel nulla o quasi.

Con ciò siamo portati ad enunciare un altro paradosso: la forza di volontà, quella che all’occorrenza fa stringere i denti e sopportare
i disagi, è l’arma principale di ogni tirocinio “pratico” ma ha un ruolo molto secondario negli studi.
L’intelligenza non si lascia condurre che dal desiderio, non cresce e non fruttifica se non nella gioia:
la gioia di apprendere è dunque la vera condizione indispensabile per gli studi e il saperla
suscitare e far crescere è il vero segno della capacità pedagogica dell’insegnante
.

Dicendo che l’attenzione non va confusa con la fatica, non intendiamo dire che essa non implichi uno sfrozo. Al contrario,
essa è uno degli sforzi più notevoli cui l’uomo possa sottoporsi, poichè si direbbe che
lo spirito ripugni al’attenzione più di quanto il corpo ripugni alla fatica. Tuttavia è uno sforzo senza fatica propriamente detta,
e, anzi la vera attenzione, come ciascuno ben sa, è praticamente
impossibile quando si è affaticati. Lo sforzo in cui consiste l’attenzione è quello di aprirsi totalmente alla verità,
di sospendere il pensiero restando disponibili alla scoperta di ciò che si rivela
, senza precipitare il giudizio, senza lasciarsi prendere
dalla fretta di applicare alla situazione nuova le conoscenze e stereotipi di cui già disponiamo, in una sorta di
“apparente” passività che in realtà è un vigile, consapevole e attivo senso di “attesa”.
….
Anche a livello scolastico non è difficile verificare le cose dette:
gli errori di senso nella traduzioni, gli errori di impostazione nei problemi matematici, le goffaggini di stile
o la cattiva concatenazione dei pensieri nei temi di italiano, sono quasi sempre imputabili, in radice, a questo non aver
saputo lasciare pazientemente parlare il testo, emergere nei suo dati oggettivi la natura del problema,
dipanarsi secondo la sua logica interna
l’ordine dei pensieri, precipitandosi troppo in fretta a sovrapporre loro senza adeguata riflessione alcune
intuizioni da cui ci si è lasciati “distrarre”.

Anche se a prima vista l’attenzione si presenta come una qualità tipicamente intellettuale (e in un certo senso lo è davvero),
essa non
influisce positivamente soltanto sul modo di acquisizione delle conoscenze.
E’ facile ricavare da quanto già detto, infatti, che l’attenzione nel senso di cui abbiamo parlato è
una condizione fondamentale per un’adeguata conoscenza di sè, che essa è la condizione indispensabile per un giudizio morale
responsabile, consapevole, ticco di finezza e di sensibilità, che aiuta lo sviluppo del gusto e della sensibilità
estetica.

Evandro Agazzi

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